RICCARDO III
2016
ruolo BUCKINGHAM
di William Shakespeare
adattamento e regia Renata Palminiello
movimento Elisa Cuppini
con (in ordine di apparizione) Rosanna Sfragara, Sena Lippi, Mariano Nieddu, Costantino Buttitta,
Gabriele Reboni, Massimo Grigò, Sofia Busia, Daniela D’Argenio, Carolina Cangini, Jacopo Trebbi
e con Irene Berni, Letizia Bugiani, Riccardo Ciafro, Zeno Cocchi, Nicola Maraviglia, Elena Meoni,
Alessandro Nannini, Emma Novelli, Olga Novelli, Franco Paluzzi, Lucrezia Pallotti Degli Esposti, Federico Pelliccioni,
Tiziano Pratesi, Moreno Scoscini, Eugenio Ulivagnoli, Silvia Venturi, Matteo Vitale
musicisti in scena Virginia Belvedere, flauto – Giulio Soldati, tromba
luci Emiliano Pona
consulenza musicale Massimo Caselli
maestro di canto Marco Mustaro
assistente alla regia Matteo Tortora
armature ideate e realizzate da Francesco Silei
oggetti di scena ideati e realizzati da Liceo Artistico “P. Petrocchi” Pistoia
elementi di scena realizzati da Laboratorio Scena & Tecnica Associazione Teatrale Pistoiese
una creazione che si è avvalsa della collaborazione artistica di Bruno Stori
in collaborazione con Armunia Centro di Residenza Artistica Castiglioncello
e Scuola di Musica e Danza “T. Mabellini” Pistoia
produzione Associazione Teatrale Pistoiese Centro di Produzione Teatrale
foto di scena Matteo Tortora
note di regia
Questo materiale drammaturgico è inevitabilmente parte della nostra memoria, nel Riccardo, come in altri testi di Shakespeare, ci sono intere frasi di cui siamo sicuri di conoscere il significato, che aspettiamo di ascoltare dagli attori, appuntamenti ai quali siamo arrivati in anticipo, sicuri. Poi comincia il lavoro e crollano una ad una le certezze, “prendere non è dare” forse non vuol dire proprio quello che ci sembrava, vacilla persino “il mio regno per un cavallo”. E si ricomincia da capo, dagli errori, dalla confusione. Perché è così difficile ricordarsi, per esempio, che il morto che Anna vuole seppellire non è suo marito ma suo suocero? E poi perché non è suo marito? Anche nelle risposte poi si comincia a sbagliare. Elisabetta dice a Riccardo “i miei bambini erano destinati ad una morte più bella se iddio avesse concesso a te il dono di una vita più bella”, ma una analisi psicologica fatta di traumi infantili, di progetti di vendetta contro la vita crudele, non costruisce da sola l’azione drammatica necessaria alla scena. Perché Clarence ci sembra una vittima mentre è un colpevole, perché dimentichiamo il torto subito da Margherita e chiediamo la sua follia?
Così si comincia a fare, a stare nelle scene senza pensare di doverle possedere interamente. Si comincia di fatto a non fidarsi solo di se stessi e si accettano i maestri, gli archetipi dei personaggi, la Storia, il linguaggio.
Si scopre così che bisogna stare nel tempo veloce e lento che dà la scrittura, che è meglio pensare all’amore piuttosto che al dolore nato dalla sua perdita, che è impossibile lavorare una scena separata dall’altra, perché i personaggi sono “lunghi”, si allungano verso la successiva, hanno obbiettivi diversi ma uno su tutti: vogliono sopravvivere. Questo non li rende innocenti, ma li rende vivi. E la follia vera è solo di chi “par che voglia morire” .